Comune di Novara di Sicilia


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Il torneo del maiorchino


In lingua italiana “la ruzzola” è un disco di legno che si lancia con la mano facendolo ruzzolare per le strade campestri. In dialetto novarese, invece, “a maiurchèa” è una forma di formaggio pecorino locale (dai 10 ai 12 kilogrammi con uno spessore di 10 – 12 cm. e con un diametro intorno ai 35 cm.) che si lancia con il mazzacorto (lazzàda di m. 3 – 3,50) avvinto lungo la circonferenza. La prima manifestazione popolare della “maiorchìna” a Novara di Sicilia, dovette avere inizio nel primo trentennio del 1600, epoca in cui cominciava ad essere battuta la strada che va dallo spigolo della cappella della Madonna del Carmine (inizio discesa della Matrice) al piano don Michele. Il giuoco della “maiorchìna” non poteva esistere prima, perché non poteva essere praticato nell’angusta via del Passitto, con i suoi vicoli ciechi. Cominciava, invece, ad avere incremento allorquando si gettavano le basi della moresca Casa Fontana, del distrutto lavatoio e della fontana di Vallone Falanga, della Chiesa di San Giorgio, dell’Oratorio di San Filippo Neri, della Chiesa di S. Antonio e dei mulini della Corte Sottana. Durante l’esecuzione dei suddetti lavori, nel primo trentennio del 1600, cominciò ad essere battuta la strada su cui precipitò e rotolò la prima “maiorchìna”. A Novara di Sicilia si pratica ancora, con tanto entusiasmo e tanta partecipazione, seguendo le solite, vecchie e poche regole che governano il giuoco. E’ un giuoco di abilità ma soprattutto di fortuna, tramandato ai posteri dagli “antichi” per la naturale continuazione. Il giuoco consiste nel lanciare la “maiorchìna”, facendo leva sul piede di appoggio fermo (pedi fermu) sul punto segnato, senza alcuna rincorsa, lungo il percorso che va dall’inizio della via Duomo al traguardo fissato alla fine di un muretto del piano don Michele. In caso di una eventuale appendice, dovuta al giuoco, si prosegue come da tradizione, per la stradina che porta ai mulini di Corte Sottana. Indicati dai capitani i due primi giocatori, fatta la conta (u toccu) per stabilire chi deve iniziare il giuoco, i due primi giocatori, rispettivamente intervallati, mugliàda a maiurchèa ‘ntà lazzàda fatta con lo spago da calzolaio, piegato e attorto in otto capi, della lunghezza di non meno di metri 3 – 3,50, ed impeciato, per meglio aderire alla circonferenza, lanciano a maiurchèa lungo il percorso citato (da cantuèa da Chiazza a sarva du chièu don Michèri), e di seguito, i secondi giocatori delle rispettive squadre, alternandosi, dal punto dove è andata a fermarsi.

La squadra, composta da due o tre tiratori, che con il suo ultimo giocatore raggiunge, oltrepassa e va più lontano da sarva dell’altro, a parità di colpi (lanci), risulta la vincitrice ed ha diritto al possesso della posta in palio: “a maiurchèa”. Il giuoco si svolge nel periodo carnascialesco. Ai margini della strada, teatro e ribalta del giuoco, dopo mezzogiorno, si assiepa tanta folla che, tra l’altro, conoscendo le doti, l’abilità di ogni giocatore-tiratore, evidenzia i pregi e i difetti pronosticando pro o contro il possibile vincitore.

Si vive un’atmosfera di esultanza e di esaltazione, di emulazione e rivalità, di confronti e preferenze, di previsioni e pronostici, mentre, nel brusio della gente, partigiana di una o l’altra parte, si ascoltano voci che invitano a prestare attenzione all’imminente lancio della “maiorchìna” e si ridestano i ricordi di lanci “famosi” di giocatori che hanno fatto la storia del “giuoco della maiorchìna”. Come se si sfogliasse un vocabolario antico, si pronunciano, durante il giuoco, parole di lingue diverse. Si ascoltano parole ed accenti arcaici; sono parole che non si ripetono nell’anno, ma soltanto in occasione della sagra invernale novarese che si svolge nel periodo di Carnevale.

Eccone alcune

Preliminari: “u toccu” – “gratta a maiurchèa e strìghila bora o muru” – fagìdivi fa a lazzàda ‘nciàda du scarpàu” – “guàrdici u strittu” – “mòglia bora a maiurchèa”.

Modi, cause ed effetti del lancio: “mòglia bora a lazzàda” – strìngila bella fitta” – “schìccila a màu dritta” – “dacci na runcàda” – “lànzila o spìgu da cappillitta” – “mèttici u strittu p’a cariètta” – “mèttici un giru e menzu i lazzada“ - ‘mbuccàu” – “a ‘mbusciuèu” – “a cattafuccàu” - “si ni niscìu i to lazzu” – “si smugliau” – “si cuglìu” – “sarvàu”.

Avvisi: “guardèmmu” – “i ghemmi”

Tappe lungo il percorso: “spizzigàu u spigu da casa i Paradùri” – “‘mbuccàu o spigu da Cappillitta da Madonna du Carmu” – sprusciàu cu muru da casa i don Gneziu Sufia” – “pigliàu a scinnùda da Matrìcci” – “si curcàu daventi o buccu i vallò Faànga” – “ci spunnàu a porta ò Pastàu” – “caràu p’a strada du tiattru e scinnìu ‘ntà l’ortu du zì Miccu” - “caràu a San Giorgi a chiappa i Garbàdu” – “si curcàu ‘nto chièu” – “si ‘nziccàu to cattafuccu”.

Numerosi sono gli imprevisti, i trabocchetti, per cui non c'è mai sicurezza di vittoria da ambo le parti e, molto spesso, accade che i giocatori meno esperti prevalgono sui più quotati. Liberandosi da lazzàda (spago) la “maiorchìna” comincia a guadagnare terreno, girando su sé stessa vorticosamente, “rotola, saltella, rimbomba, precipita” lungo la strada, sbattendo qua e la, immettendosi in altri vicoli (vaèlli) non previsti dal gioco, andando poi, non avendo più la forza di girare, a voltarsi e rivoltarsi, adagiandosi a terra, spesso in fossi, che numerosi sono ai margini della strada e spesso andando “a tombolare” sotto le case, incombenti su profonde cavità (cattafùcchi) esistenti tra le case stesse e la strada elevata. Questi pericoli, che danno meno possibilità di vittoria sono disseminati lungo il Vallone Falanga e lungo la via che porta al piano don Michele. Quando la “maiochìna” sollecita, lesta e diritta, percorre l’itinerario prestabilito, coralmente si applaude al bel colpo, riuscito e azzeccato.

E così durante tutti i pomeriggi delle settimane di Carnevale, con l’andata e ritorno degli appassionati “da cantuèa da Chiazza a sarva du chièu don Michèri” si svolge l’avito, popolare “giuoco del maiorchìno” col concorso di un pubblico appassionato e festante dopo una annata di attesa.

Regolamento del giuoco

Art. 1 Il giuoco consiste nel lanciare il maiorchino lungo il percoso che va “da cantuèa da Chiazza a sarva du chièu don Michèri”;

Art. 2 Ogni squadra deve segnalare, prima dell’inizio della gara, il proprio capitano, che potrà conferire con i giudici di gara per far valere le proprie ragioni “nel caso … ve ne fossero”;

Art. 3 Inizia il giuoco la squadra che risulta sorteggiata per prima (toccu);

Art. 4 Ogni giocatore deve lanciare il maiorchino dal punto segnato, senza alcuna rincorsa, facendo leva sul piede di appoggio (pèdi fermu);

Art. 5 Vince la squadra che raggiunge, per prima il punto di arrivo (a sarva) a parità di lanci (corpi).In caso di una eventuale appendice, si prosegue, come da tradizione, per la stradina che porta ai mulini di Corte Sottana.

Art. 6 Nel caso in cui il maiorchino, durante la gara, dovesse rompersi, verrà segnato il punto dove si fermerà il pezzo più grande e verrà sostituito con un’altra forma di maiorchino di eguale peso;

Art. 7 Per quanto non previsto nel presente “regolamento”, restano sempre in vigore le ataviche e vetuste regole del “Giuoco del Maiorchino a Novara”;

Albo D'oro

1989 CATALFAMO Domenico – CATALFAMO Eugenio – LOMBARDO Salvatore; 1990 DI DIO Santo – LENZO Giuseppe – PAFFUMI Salvatore; 1991 BERTOLAMI Mario – BUEMI Renato – TRUSCELLO Michele; 1992 CATANESE Maurizio – GRASSO Pietro – PORCINO Giuseppe; 1993 CITRARO Emanuele – CITRARO Roberto – CITRARO Salvatore; 1994 CATALFAMO Sergio – DI CARLO Santi – TRUSCELLO Antonino; 1995 BERTOLAMI Mario – BUEMI Renato – TRUSCELLO Michele; 1996 BUEMI Giovanni - CARROZZO Aldo – ORLANDO Salvatore; 1997 BERTOLAMI Luciano – MILICI Giuseppe – PORTOGALLO Giovanni; 1998 MILICI Giuseppe – PORTOGALLO Giovanni – SOFIA Antonino; 1999 CATALFAMO Domenico – LOMBARDO Delmiro – LOMBARDO Salvatore; 2000 MILICI Giuseppe – PORTOGALLO Giovanni – SOFIA Antonino; 2001 BERTOLAMI Mario – BUEMI Renato – TRUSCELLO Michele; 2002 MILICI Giuseppe –PORTOGALLO Giovanni –SOFIA Antonino

Gli Artisti del giuoco

  1. Truscello Giuseppe (Giurgìlla)
  2. Ardizzone Francesco (u cumpà Cicciu straglièa)
  3. Ardizzone Giuseppe (Straglièa)
  4. Bartolotta Salvatore (Turi u billìcchiu)
  5. Bertolami Giuseppe (don Pippèu Lièzza)
  6. Bertolami Giuseppe (Peppi u murittu)
  7. Bertolami Luciano (u scurzò)
  8. Bertolami Mario (u figliu i don Pippèu Lièzza)
  9. Buemi Giovanni (Turillu i Marisa)
  10. Buemi Giuseppe (Missìra)
  11. Buemi Renato (u figliu i Piru missìra)
  12. Calabrese Armando (u scacciottu)
  13. Calabrese Carmelo (Cialì)
  14. Carrozzo Giuseppe (u fradi du guardia)
  15. Carrozzo Aldo – Mario e Salvatore
  16. Catalfamo Domenico
  17. Catalfamo Eugenio e Salvatore
  18. Catalfamo Sergio (u gurpu)
  19. Catanese Maurizio (Coca cola)
  20. Citraro Emanuele – Roberto – Salvatore (i miccò)
  21. Da Campo Salvatore (Sentu u fantiìsi)
  22. D’Aveni Antonino (Ucchìtti)
  23. Di Carlo Santi (u svizzièru)
  24. Di Dio Giovanni (Ciamprìtta)
  25. Di Dio Santo (l’africhèru)
  26. Di Francesco Giuseppe (Pitrùzza)
  27. Ferrara Antonio (Particò)
  28. Giuttari Carmelo (u cogu)
  29. Grasso Pietro (u malandrìru)
  30. La Mazza Michele (patàtta)
  31. Lenzo Giuseppe
  32. Lombardo Delmiro
  33. Lombardo Salvatore
  34. Maimone Carmelo (u mastru)
  35. Milici Antonio (u saudèu)
  36. Milici Giuseppe (Peppi Cispa)
  37. Orlando Salvatore (u spadaccèu)
  38. Orlando Ugo (Pullijèu)
  39. Paffumi Salvatore
  40. Porcino Giuseppe
  41. Portogallo Giovanni
  42. Puglisi Francesco (Scimùri)
  43. Rao Salvatore (u sinnighìttu)
  44. Rossello Carmelo e Vincenzo (i pantalè)
  45. Sofia Angelo (don Engiu u micùsciu)
  46. Signorino Antonino (Nèu u signurèu)
  47. Sofia Antonino (u frencu)
  48. Sofia Antonino (Nèu lepru)
  49. Sofia Carmelo e Fortunato (i pichicchia)
  50. Sofia Girolamo Vincenzo (u frencu)
  51. Sofia Salvatore (Turi frencu)
  52. Trifilò Antonino (u figliu i Sunta a longa)
  53. Truscello Antonino (Billi bolli)
  54. Truscello Michele (u figliu i Giurgìlla e so nennu Michèri)

da “L’uomo del sole” di Nino Trifilò

“...Don Cesare Cavatino con un tiepido raggio di sole sulle spalle e con il piede d’appoggio sulla striscia di pietra che delimita il basolato della via Duomo con quello del corso Nazionale, dondolando tra le mani, sul fianco destro e con le gambe leggermente piegate, una forma di maiorchino di circa dodici chilogrammi, ed esaminando con gli occhi dilatati ed attenti la strada che doveva farle percorrere, fra l’affannoso ed interessato vociare degli astanti, sempre critici ed avveduti giudici, iniziò la gara.

<> disciplinato dal suo abile lancio, rotolò sibilando sul basolato sconnesso della strada, rasentò di una ventina di centimetri <> (lo spigolo) della casa dei Paratore, saltellò dinanzi agli scalini della Piazzetta Furnari, schivò tubi di grondaie, sporgenze e stipiti di porte, evitò <> d’entrata al vico G. Maimone e filò, spinto da misurata forza, davanti all’imbocco <> laterali, infine, pur camminando dritto dritto, strusciò col muro della casa dell’avvocato Don <> Sofia, rallentò la sua corsa e si <> (coricò) davanti alla cappelletta <>.

Un colpo da maestro del giuoco di più di cento metri <> la scalinata di via Teatro forse si sarebbe fermato sul piano di vallone Falanga.

Alcuni spettatori, meravigliati da tanta bravura, esclamarono: - <>!

Un solerte ragazzo di fiducia si precipitò a segnare attorno <> (con un pezzetto di vaso di terracotta), un cerchio per indicarne l’esatta posizione per il successivo lancio e a riportarlo indietro.

L’avversario di Don Cesare, Giovanni Puglisi, non fu da meno: Con un colpo ben azzeccato portò <> a non più di dieci metri di distanza, sul lato sinistro della via Duomo, in una posizione più comoda per il prossimo tiro.

Ora era la volta del suo compagno.

Ciccio Ferrara mise il piede destro fermo sul segno, come la rigida regola del giuoco stabilisce, divaricò il sinistro e <> fra le mani, dentro le gambe divaricate, e senza avvolgerlo nel laccio, lo lanciò appena <> (curvato). Il formaggio, come fosse ammaestrato dalla sua capacità, svirgolò lo spigolo e s’immise nella discesa di via Teatro. Ad ogni scalino che scendeva aumentava di velocità. Ma non avanzò dritto come avrebbe voluto nelle sue intenzioni. Dopo una dozzina di metri urtò contro un puntuto selcio, maledettamente lasciato in mezzo alla strada, si curvò leggermente a destra ed andò a cozzare contro le tavole, poste a protezione, della porta <>. Rimbalzò curiosamente e rigirandosi su sé stesso, come una trottola impazzita, si capovolse e tacque a centro della scalinata.

Lo stramaledetto sasso aveva deviato <> di quel tanto da non fare riuscire il colpo!

Ed appunto per questo, per ciò che d’imprevisto può accadere, che tale giuoco è definito <>.

Strusciate, urti, sobbalzi, rimbombi, non preventivati, ma legati alla fatalità, erano distribuiti equamente e senza distinzioni e senza distrazione. Accadevano senza volontà e per disperazione dei giocatori. E l’arrabbiarsi era inutile, poiché quel che succedeva di contrario all’uno poteva succedere all’altro e talvolta con conseguenze più sfortunate. L’esperienza insegnava che non si doveva mai disperare quando al di là della bravura tutto era affidato alla casualità.

Infatti: - Il colpo di Turi Truscello, il compagno di giuoco di Giovanni Puglisi, inizialmente fu protetto dalla fortuna: <> evitò largamente <> della casa di Don <> Sofia, sbatté maldestramente contro il muro della strada, si rizzò e precipitò giù velocemente come fosse sparato da una catapulta.

<> <> - Gridavano gli spettatori per avvertire del latente pericolo, allargandosi al passaggio <> che se avesse malauguratamente colpito la gamba di qualche sprovveduto gliela avrebbe sicuramente spezzata.

<> sfiorò malamente la casa <> si curvò a destra e sprofondò <<’ntò catafuccu>> sotto la casa dei Caruso, fra i rimbrotti e la delusione di Giovanni Puglisi, che avrebbe preferito miglior sorte al colpo del suo compagno.

Ora toccava di nuovo a Don Cesare cimentarsi.

Appoggiò <> su di un rialzo, lo avvinse prudentemente con un giro e mezzo del mazzacorto, mise il piede destro sul segno, per non farsi inficiare il colpo, e, col sinistro in avanti e con buoni proponimenti, lo lanciò debolmente accompagnando accortamente lo sciogliersi del laccio, quasi a fargli lambire gli scalini con una carezza. <> vinse la semi curva, ruzzolò comodamente, e a Vallone Falanga, urtando contro la casa dei fratelli Chillemi, perse la baldanza e si fermò sotto il balcone.

Giovanni Puglisi, a sua volta, dopo avere fatto personalmente, tondo tondo, il segno, prese <> sottobraccio e digrignando i denti, con irritazione per la difficoltà del colpo che l’attendeva, discese i sette alti e irregolari gradini della scala del tetro <>.

Era alto di statura e di corporatura possente e muscolosa.

Arrivato al segno, chiamò a raccolta i suoi buoni muscoli, sollevò come un fuscello <> sulla testa e, con un atletico saltello, lo lanciò. <> sembrava ammaestrato. All’impatto con la strada si divincolò, simile ad un asino frustato sul di dietro, e, come guidato magicamente, rotolò dritto dritto e piano piano andò a fermarsi a quasi un metro di distanza dal punto raggiunto da Don Cesare.

Bravo! Magnifico! Si complimentarono alcuni suoi sostenitori.

Soltanto con la forza e con la bravura di Giovanni Puglisi si poteva eseguire un lancio così felice. Senza dubbio gli attenti contendenti erano dotati di molta abilità e l’aggiudicazione della gara sarebbe avvenuta sicuramente all’ultimo colpo. E forse per pochi metri, se non sarebbero accaduti fatti straordinari da stravolgere l’andamento regolare della sfida. Non demordevano affatto. Ostici e difficilmente superabili, studiavano i lanci con disarmante cura e meticolosità, nella speranza di disorientare l’avversario e di eludere l’imprevedibile sfortuna, sempre in agguato. I lanci successivi non furono eccezionali. Furono normali e precisi nell’esecuzione. Evitarono la scalinata a sinistra, prima della casa di Tripodo e la salitella a destra che devia verso il Palazzo Comunale, schivarono la discesa di Santa Caterina e il nascondiglio dietro la cabina elettrica, superarono la piazzetta della Chiesa di San Giorgio e la tremenda discesa di fianco al Teatro che porta a Sant’Antonio. Non sorsero e non si presentarono difficoltà insormontabili lungo il restante percorso. Passavano i minuti, intrisi di nervosismo appena celato per la meraviglia del giuoco che si sviluppava senza possibilità di vedere sopraffare l’uno sull’altro contendente. I giocatori evitavano di guardarsi con odio. Si stimavano vicendevolmente. In fondo erano amici che si rispettavano al di là di ogni interesse o utilità derivante dal giuoco e dall’ansioso contrastarsi. L’uno, il compagno di Don Cesare, Ciccio Ferrara, stimato per la sua probità e bontà d’animo, lasciò <> sotto il campanile di San Giorgio e l’altro, Turi Truscello, il compagno di Giovanni Puglisi, uomo laborioso e sincero con tutti, si avvantaggiò, per sua fortuna o abilità, di una quindicina di metri, portando <> sotto le ingabbiate finestre delle carceri.

Arrivarono così, in queste posizioni, agli ultimi due colpi, con tanta animosità, ma senza cattiveria negli spizzicosi sfottò.

<> era possibile sia per Giovanni Puglisi che per Don Cesare Cavatino.

Toccò per primo a Don Cesare mettere alla prova la sua bravura.

Il colpo era stuzzicante.

Attraverso il pianeggiante rettilineo, s’intravedeva lontano il muretto dell’arrivo.

- E qui bisogna rompersi l’anima! – disse fra sé Don Cesare, calamitando gli occhi sul percorso e raccogliendosi come a volere propiziare gli astri. Esaminò la forma del maiorchino, dentro, guardandola fissamente per qualche minuto come se la vedesse per la prima volta e se la trovasse magicamente tra le mani, ora, per miracolo, e se la strinse al petto come un neonato bisognevole d’affetto. Quando materializzò quel maiorchino, si guardò attorno e vide uno stuolo di gente a due filari che, addossata ai bordi della strada, gli indicava il modo come doveva effettuare il lancio. Quasi tutti, competenti, avevano un giusto, per loro, consiglio da dare che Don Cesare annuendo accettava, per non scontentarli, con ilari sorrisetti e con accondiscendente gravità.

Ritenuta dentro i baffi c’era la sua bonomia e la sua compostezza.

Anche <>, suo sperticato estimatore, che del giuoco sapeva soltanto che si faceva <>, si avvicinò per porgergli sottovoce il suo disinteressato incitamento.

Solo a lui, però, spettava la scelta del tiro.

Responsabilizzato, non poteva deludere.

… e prima di avvincere <> nel laccio, raccolse nella bocca tanto fiato e tanta potenza, e lo cosparse tutt’intorno di propiziatorie pernacchie, come a volergli inculcare la sua bontà a renderlo docile.

<> sembrò sorridere e strizzare l’occhio al consenso.

Don Cesare si portò sul segno e, dopo qualche attimo di concentrazione, lo lanciò scaricandogli dentro, con la sua forza e la sua capacità, tutta la tensione accumulata durante lo svolgimento della gara.

<> fu ubbidiente.

In mezzo alla strada, padroneggiandosi, filava come una freccia. Saltellò sulle buche e schivò le pietruzze del fondo sconnesso come se avesse le ali. A qualche metro <> schiaffeggiò teneramente il muretto e … stancamente la superò. Capì, dall’alzata delle braccia al cielo con l’indice e il medio a V dei suoi sostenitori, fra le teste assiepate attorno al maiorchino, che aveva oltrepassato <>. Emise un sospiro di sollievo e con trepidazione si preparò ad assistere all’esibizione dell’amico Giovanni Puglisi, il quale, meravigliato da tanta bravura, sembrava demoralizzato e, benché avvantaggiato, disperava della riuscita del suo tiro. Infatti, al suo lancio, <>, benché carico di forza bruta, urtò malamente contro lo spigolo di pietra bugnata, all’estremità delle carceri, rimbalzò, come un invasato in preda al delirio, al centro della strada, con una semi curva si piegò di fianco, strusciò ripetutamente contro il muro di fronte alla casa di “Scimone” e a una ventina di metri <> frenò il suo impeto e, come una lepre abbattuta da un cacciatore, si riversò e giacque. Fra il coro di esaltazione dei vincitori che contrastava con la costernazione e la delusione dei perdenti, che malgrado i favorevoli commenti dovevano pagare le scommesse, Don Cesare col suo compagno Ciccio Ferrara, trionfanti, si avviarono a dividersi il maiorchino vinto, che, grattugiato, sarebbe servito ad appetire gli invitanti maccheroni di Carnevale, consumati in famiglia in buona armonia. Il ragù di Donna Amalia, poi, li avrebbe onorati.

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